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EdgardoVenturi

23 Maggio 2018 Stampa articolo

rugbyLa storia di Edgardo, per tutti più semplicemente Eddy, Venturi è una di quelle più particolari nel panorama rugbistico italiano.

L’ala di Pieve di Cento, che nella cittadina emiliana aveva mosso i primi passi in giovanile, approdò in nazionale per il tour di Stati Uniti e Canada e i giochi del Mediterraneo in Marocco, quando ancora giocava in serie B, caso più unico che raro.

“Dopo quel momento, l’allenatore mi disse che per proseguire con la maglia azzurra sarei dovuto andare in un club di serie A. Passai l’estate a sondare le proposte e optai poi per Rovigo, che nella mia mente allora era già la squadra più vincente e la più conosciuta da noi, oltre ovviamente alla più vicina a livello geografico”.

Arrivato in rossoblù nella stagione 1983/84 non visse, però, l’annata trionfale del decimo scudetto nel migliore dei modi. Almeno all’inizio.

“Ero reduce da un’operazione al ginocchio e all’inizio giocai molto poco. Poi cominciai con la formazione riserve a muovere i primi passi sul campo e quando potevo essere finalmente pronto arrivò la frattura ad una mano in nazionale B. Io vedevo questa squadra che continuava a lievitare e non riuscivo ad entrare perché avevo continui infortuni. Senza contare che comunque ero stato sostituito in maniera eccellente da Lallo Capitozzo, che giocò molto bene. Nelie Smith poi mi chiese se ero pronto e mi fece rientrare se non sbaglio due partite prima dei play-off, che giocai completamente e anche la stessa finale di Roma. Fu comunque un anno stupendo, vinsi il primo scudetto che in cuor mio pensavo di non riuscire mai a vincere. Quando perdemmo la prima semifinale con il Petrarca il pensiero fu subito negativo per un altro anno e invece poi è andata come è andata. A settembre nacque pure mio figlio Filippo, per cui alla fine fu tutto molto bello”.

Filippo che nel passato ha anche lui indossato la maglia rossoblù a livello giovanile.

“Così come Piacenza, San Gregorio e qualche anno a Badia e io venivo a vedere le partite. Lo scorso anno per impegni lavorativi ha un po’ rallentato il ritmo. D’altronde per noi rugby vuol dire ancora Rovigo e continuiamo a tifare e a seguire la squadra. Per me è un legame difficile da rompere: dal punto di vista rugbistico, mi sento molto più di Rovigo che di Pieve o altro”.

Il 1988 fu deciso con una partita straordinaria.

“Era la prima finale che giocavamo tutti e l’ambiente era davvero euforico. Il ritiro ad Albarella, tutti assieme, ci rese più consapevoli della nostra forza e carichi. Magari non eravamo la migliore squadra tecnicamente, ma a livello caratteriale credo non fossimo secondi a nessuno ed era quello che più ci aiutava a vincere le partite. A quei tempi il rugby era un po’ diverso e se non ci arrivavi tecnicamente, potevi provarci in altro modo”.

Di fatto fu così anche per quella finale.

“Esatto. Il merito nostro fu di averci creduto fino alla fine, nonostante tutto sembrasse già compromesso, a partire dal diluvio che venne giù, penso che a Roma fossero cinquant’anni che non pioveva così, avevamo il pack più leggero, Smal aveva qualche acciacco fisico, poi l’errore di Naas all’inizio, e quando sbaglia un campione del genere è facile demoralizzarsi. Invece noi abbiamo continuato fino all’ultimo ed è arrivata quella meta, dove io ero in sostegno subito dietro a Bordon”.rugby

Oggi Eddy, che nella vita di tutti i giorni fa l’assicuratore, continua il suo impegno nel rugby. Nell’ultima stagione come allenatore in serie B del Bologna 1928 e in C nel progetto particolare di reinserimento dei detenuti del carcere Dozza di Bologna, oltre che nelle giovanili under 16 e 18 per il comitato emiliano nelle aree di Bologna e Ferrara. Trent’anni dopo ci si ritroverà assieme per festeggiare nel migliore dei modi.

“Spesso ancora mi sento con Massimo Brunello, Stefano Bordon e Mirco Visentin. Il bello del nostro gruppo è comunque il fatto che anche se ci si risente dopo tanto tempo, si riparte subito con le solite battute e le stesse prese in giro di allora, come non fosse passato nemmeno un minuto”.

Pensando a questi nomi, ma anche ai vari Brizzante, Smal e altri, è stata un’annata prodiga di allenatori futuri.

“Il clima che si era creato era straordinario. C’erano pochi stranieri e qualche altro da fuori, mentre il resto del gruppo era di Rovigo e vuol dire molto. Quando vedo una squadra come quella attuale dove si cambia metà rosa ogni anno, un po’ storco il naso. Il rugby è uno sport anche molto umorale, si ok la tecnica e il fisico, ma l’umore vuol dire tanto, così come l’attaccamento alla maglia e a quel tempo lo sentivamo come un fattore importante”. 

Anni anche di grande passione rossoblu fuori dal campo.

“Erano i primi anni del tifo organizzato. Quando durante i play-off vedevamo tutti i tifosi vestiti uguali, con tamburi, canti, per noi era una spinta in più. Penso di parlare a nome di tutti nel dire che quando vedevamo un tifo del genere, entravamo in campo facendo cose che erano impensabili e sentivamo molto meno la fatica”.

 

 

 

 

C.S.



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